Lo psicologo può prendere in cura familiari o amici?

Lo psicologo può prendere in cura familiari o amici?

Ecco una delle frequenti domande a cui, come psicologhe e psicoterapeute, ci troviamo a dover rispondere ai pazienti che si recano nel nostro studio di Torino o ai nostri amici o familiari.

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Quando un paziente chiede che venga preso in carico un suo amico o parente

Capita sovente che persone che hanno intrapreso un percorso psicologico o psicoterapeutico per affrontare e gestire le proprie sofferenze e difficoltà  di vita, trovando giovamento ed un maggior benessere psicologico, condividano tali pensieri e vissuti con i propri familiari o amici. L'entusiasmo con cui vengono riportati e condivisi i propri miglioramenti ed il raggiungimento dei propri obiettivi nonché la descrizione di una relazione empatica ed accogliente che intercorre all'interno dello studio dello psicologo a Torino possono indurre parenti e amici a richiedere di intraprendere un percorso di sostegno o psicoterapia con il medesimo psicologo a Torino. Il professionista può trovarsi, così, di fronte ad una richiesta da gestire con estrema delicatezza, date le implicazioni su cui ci soffermeremo successivamente.

E se è un familiare o un amico dello psicologo a fare questa richiesta?

Non raramente lo psicologo riceve tali domande da suoi parenti o amici che, conoscendolo nella vita privata, nutrono stima in lui, nel suo modo di porsi di fronte alle questioni quotidiane, nel suo atteggiamento delicato, rispettoso ed empatico e nei suoi modi di fare corretti e rispettosi. Alla base vi è la convinzione errata che "conoscendomi sarà  più in grado di altri di consigliarmi, aiutarmi, comprendermi e darmi il sostegno necessario" e "proprio perché mi vuole bene si prenderà  cura di me con attenzione personale e professionale nel migliore dei modi!".

Quali sono le indicazioni del codice deontologico degli psicologi italiani?

L' Articolo 28 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani si esprime molto chiaramente in tal senso:

Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l'attività  professionale o comunque arrecare nocumento all'immagine sociale della professione.
Costituisce grave violazione deontologica effettuare interventi diagnostici, di sostegno psicologico o di psicoterapia rivolti a persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale.

Il fine è innanzitutto la tutela del cliente, per il quale la dimensione affettivo-relazionale pregressa potrebbe inficiare il buon svolgimento della pratica clinica professionale, traendo, invece, beneficio dall'estraneità  del professionista nella propria vita privata.
Uno psicologo o psicoterapeuta emotivamente coinvolto in una relazione personale nata precedentemente e fuori dallo studio psicologico (trattandosi di una persona a lui molto cara come un parente o un amico) fatica parecchio nel poter svolgere efficacemente il suo operato; rischia, infatti, di non riuscire a

  • ascoltare senza giudizi e pregiudizi;
  • fornire un sostegno non condizionato dalla realtà  che probabilmente già  conosce e di cui ha una sua opinione personale;
  • mantenere la "neutralità " del setting e della relazione terapeutica;
  • evitare, magari involontariamente, commenti e opinioni personali condizionando, così, la capacità  decisionale e gli stati d'animo del suo interlocutore;

Il professionista ha, invece, il compito di creare le condizioni affinché il suo cliente contatti le sue emozioni, si renda consapevole dei suoi vissuti ed elabori le sue convinzioni e pensieri al fine di poter avviare un cambiamento e raggiungere gli obiettivi psicologici prefissati.

Considerazioni analoghe possono essere fatte quando un paziente che sta già  seguendo un percorso psicologico, di sostegno o di terapia, chieda che un suo amico o familiare possa essere preso in carico dallo stesso psicologo... ... "sa dottoressa... con lei io mi trovo così bene... ne ho parlato con mio figlio... e anche lui vede il mio miglioramento... .anche lui non sta tanto bene... ..non è che lei potrebbe vederlo?"
Se da una parte è vero che il passaparola è il miglior biglietto da visita per un professionista, indicatore del fatto che egli lavora in modo efficace, per lo psicologo questo discorso va trattato con una certa cautela, proprio, come precedentemente affermato più volte, a tutela dei pazienti, di se stesso e della professione.
In questi casi è dovere dello psicologo valutare, di volta in volta, l'opportunità  o meno di una consulenza psicologica e di una eventuale presa in carico, sulla base di considerazioni cliniche, etiche e deontologiche del nucleo familiare.
Resta saldo, comunque, l'obbligo per lo psicologo al segreto professionale, grazie a cui, di fronte all'eventuale conoscenza intercorsa tra uno o più suoi pazienti, "nessuna informazione riferita in colloquio psicologico uscirà  fuori dalla porta dello studio psicologico".

Quale è la giusta relazione tra psicologo e paziente?

mani intrecciate per le ditaPer rispondere a questa domanda ritengo sia opportuno affiancare al termine GIUSTA concetti come BUONA, SANA, PROTETTIVA, EFFICACE.

Da un punto di vista deontologico ed etico il codice deontologico degli psicologi italiani, come precedentemente affermato, descrive a quali comportamenti i professionisti debbano obbligatoriamente attenersi (è una grave violazione per lo psicoterapeuta lavorare con "persone con le quali ha intrattenuto o intrattiene relazioni significative di natura personale, in particolare di natura affettivo-sentimentale e/o sessuale")

Si tratta, dunque, di una relazione:

  • nuova, poiché terapeuta e paziente non si conoscono precedentemente, quantomeno non in modo intimo, confidenziale o familiare;
  • di natura professionale, all'interno della quale il terapeuta riceve un onorario per il suo lavoro;
  • asimmetrica, in cui il terapeuta è focalizzato sul paziente ed il paziente è focalizzato su se stesso;
  • accogliente e non giudicante, ed in cui il terapeuta è tenuto per legge al segreto professionale;
  • intensa ed intima ma non amichevole; seppure il terapeuta possa comportarsi in modo amichevole e confidenziale egli non è coinvolto emotivamente con la persona e la sua capacità  di giudizio rimane inalterata, non essendo influenzata da eventi precedenti.

È auspicabile, dunque, che essi (neanche al termine del percorso di sostegno o terapia) non coltivino un'amicizia, sia perché è molto difficile che una relazione professionale ed asimmetrica che si fonda su ruoli differenti (paziente e curante) possa trasformarsi in una relazione sana e simmetrica in cui si alternano in modo equilibrato ascolto ed espressione, ricevere e offrire, sia perché ciò dà  al paziente la possibilità  di rivolgersi nuovamente al terapeuta, anche a distanza di molti anni, e di affrontare eventuali nuove difficoltà  interiori in una relazione terapeutica già  consolidata.

Infine è importante ricordare che i pazienti hanno bisogno di sentire che il rapporto con il loro terapeuta non sia unicamente di natura economica, che egli si interessa genuinamente a loro, a prescindere dal loro ruolo. E' necessario, quindi, che lo psicoterapeuta sia autenticamente appassionato rispetto a quello che fa e che senta il proprio lavoro come una "missione" riuscendo a trasmettere quel qualcosa in più che i pazienti apprezzano e che consente loro di aprirsi.

Concludo affermando che se da una parte le fantasie, le illusioni, le convinzioni del paziente possono essere le più svariate in merito alla natura della relazione terapeutica sarà  compito, principalmente, del professionista esplicitare verbalmente ed esprimere anche col comportamento non verbale i presupposti che lo guidano all'interno della relazione in modo tale da rendere quanto più possibile chiara la natura della relazione e le sue caratteristiche.

Una relazione di questo tipo può, a mio parere, essere definita BUONA e SANA, EFFICACE nel promuovere il cambiamento e reciprocamente PROTETTIVA.

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